15 APRILE 2020
BREVE GUIDA PER NON ADDETTI AI LAVORI NEL BILANCIO DEL PAESE DELLE MERAVIGLIE”
PROSPETTIVE PER L’ECONOMIA ITALIANA, POLITICHE FISCALI E DEBITO PUBBLICO
Questo l’argomento che ha formato oggetto di una interessante relazione tenuta dal dott. Enrico Zanetti, commercialista e revisore legale, deputato dal 2013 al 2018 della Repubblica alla Camera con il ruolo di Viceministro dell’Economia e delle Finanze, nell’ interclub del 18 febbraio 2020 presso il Ristorante “Bella Venezia” di Latisana dove si è parlato di prospettive per l’economia italiana, di politiche fiscali, di debito pubblico.
Presenti all’incontro, presieduto dal presidente Antonio Simeoni, i RC di Aquileia-Cervignano-Palmanova con il presidente Luigi Di Caccamo, di Codroipo-Villa Manin con il presidente Remigio Venier, di San Vito al Tagliamento con il presidente Maurizio Valente, di Caorle con il presidente Riccardo Gusso e di Portogruaro con l’incoming presidente Teresa Cariello. Presenti anche il presidente del Lions di Lignano, Francesco Bocus e Anna Fabbro, assistente del Governatore.
Il relatore inizia il suo intervento partendo dai classici temi del bilancio dello Stato con uno sguardo particolare sulle difficoltà di crescita della nostra economia . E parte dal famoso debito pubblico, considerato il tema dei temi che costituisce un fardello in funzione del quale tutto è di difficile realizzazione. Il debito pubblico italiano è elevatissimo e, da un punto di vista anche di valori assoluti, è ragguardevole perché ormai si parla di circa duemila miliardi con un peso rispetto al prodotto interno lordo del 135%. Ma è un debito pubblico sostenibile perché l’economia italiana è comunque in grado di assicurare anche nel medio periodo una garanzia, sia per i mercati sia per quelli che sono gli investitori potenziali dei titoli, circa la loro possibilità di riavere indietro i soldi che hanno investito.
La cosa fondamentale è che il dato del valore assoluto del debito in sé è un dato del tutto inutile. Finché c’è disavanzo questo si somma al debito già esistente e noi continuiamo ad avere dei deficit attorno al 2%. Stanno diminuendo però di anno in anno. Al momento attuale chiudere con un avanzo non è possibile e non è ragionevole. Il debito pubblico aumenta quindi in valore assoluto e questa è una dinamica normale. A giugno c’è una delle più grandi azioni di tesoreria del bilancio dello Stato, con cui vengono emessi una serie di titoli nuovi. Puntualmente c’è il picco del debito che poi gradualmente rientra con le restituzioni, che ridiscende nella seconda parte dell’anno. Ovviamente il 135 % è comunque un numero temibile che deve essere tenuto sotto controllo. Questo rapporto aumenterà se il deficit ogni anno sarà superiore in termini percentuali rispetto al PIL. Bisogna quindi fare delle politiche che siano il più equilibrate dal punto di vista di spesa ed entrate.
Il primo modo per ridurre il deficit è intervenire sulla spesa. Lo si è fatto in questi anni? È stato sufficiente? Se si guarda indietro, la spesa dal 2008 si è sostanzialmente fermata. In valori assoluti non si è fermata ma si è fermata in rapporto al PIL. Dal 2008 in avanti è stato fermato il trend di crescita esagerata della spesa. Tra le voci principali si vede con chiarezza il taglio delle spese. Ad esempio nel lavoro dipendente. Qualitativamente c’è spazio per agire ma quantitativamente la spesa è ridotta all’osso. Bisognerebbe avere la forza di riavviare i processi di inserimento nella pubblica amministrazione di forze fresche perché c’è una non coerenza tra l’età media e pregresso lavorativo con l’esigenza di nuove conoscenze.
Sulla spesa si dice spesso che bisognerebbe aumentare quella per investimenti ed è indubbio che la spesa per investimenti, in valore assoluto, è cresciuta poco.
La spesa per investimenti potrebbe dare una mano sotto tanti punti di vista ma il tema centrale è che, quando arriva il momento per il sostenimento della spesa stessa, i vincoli che avresti trovato con politiche di spesa corrente e tasse li ritrovi tali e quali. L’unica spesa che è discesa negli ultimi anni in modo significativo (20 anni) è la spesa per interessi passivi. Quando siamo entrati nell’euro era il 14% del PIL, mentre la spesa per interessi dello scorso anno era del 3,3%. Cioè tutto lo spazio recuperato per la riduzione del deficit è interamente dovuto alla riduzione della spesa per interessi passivi. Questa è la partita attorno alla quale si gioca tutto il resto. Per tenere in piedi la baracca si devono tenere bassi gli interessi passivi che sono l’unica voce che in questi anni sono diminuiti in una maniera spaventosa. Per tenerli bassi devi contenere i tassi dei nuovi titoli che vai a rinnovare. Questa è una cosa con cui devono scontrarsi tutti. Ovviamente, se sul piano quantitativo i margini della spesa sono pochi, sul piano qualitativo spazi ci sono.
Le entrate sono fondamentali per non fare esplodere il deficit. La pressione fiscale in Italia si attesta al 40,84% del PIL. È alta, è bassa? La valutazione la si può fare confrontando la nostra stessa storia e confrontandoci con gli altri. Se guardiamo la nostra storia siamo in una fase che è anche inferiore al 2012 con pressione fiscale al 43%. Questa punta è stata riassorbita dal 2014 al 2017 fino ad arrivare ai valori attuali. Questa pressione fiscale oscilla intorno a questi valori dal ’93. Bisogna tornare agli anni’80 per avere una pressione fiscale dal 36 al 37%. Il momento in cui è stata più bassa è stata dal 2001 al 2005 quando fu portata sotto il 40%. E’ risalita sopra al 40% intorno al 2006 anche se in quel momento non sarebbe stato necessario.
Se facciamo il confronto con Francia e Germania notiamo che non abbiamo una pressione fiscale particolarmente più alta. Il tema può essere la distribuzione di questo carico fiscale. In Francia è nettamente più alta rispetto a noi e in Germania cambia di pochi decimali. Perché per Stati come questi, con una spesa sociale importante, con un sistema sanitario importante la pressione fiscale ha il suo peso e meno di tanto non si può chiedere. Si puo però chiederlo meglio. E da qui, continua il relatore, viene il tema della distribuzione fiscale che si riaggancia agli argomenti di ridisegno dell’IRPEF, Flat tax ecc…
C’è una concentrazione forte sulle imposte sul reddito. Guardando come è distribuito il nostro reddito si nota che nel tempo abbiamo costruito un sistema dove la pressione fiscale esercitata sui redditi è essenzialmente concentrata, come IRPEF e progressività, sui redditi da lavoro.
La flat tax viene considerata un’eresia. È invece, secondo il dottor Zanetti, irrealizzabile. Già oggi soggetti alla mitica progressività IRPEF sono solo i redditi da lavoro, dipendente, differito (pensione),autonomo, lavoro imprenditoriale individuale e associato. La somma di questi redditi fa il 98% della base imponibile IRPEF. Tutti i redditi che derivano dal possesso e impiego di capitali e immobili sono tassati in altro modo (1,9%). Perché a quel punto l’Irpef viene percepita come bestiale soprattutto nel mondo del lavoro autonomo? Perché su quegli stessi redditi si applica anche il prelievo contributivo. Si pagano anche i contributi quindi a carico del lavoratore. È l’effetto combinato di queste due voci che fa saltare il banco.
Il tema non è solo fiscale ma è la combinazione di fiscale e contributivo. Se aggiungi l’Irpef, le addizionali regionali e comunali e i versamenti contributivi si scopre che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro che deve essere spremuto.
I redditi da fabbricati a livello dichiarato sono 35,5 miliardi, di questi quelli che vengono tassati con la progressività IRPEF sono appena 3,8 miliardi. La tassazione da redditi da capitale è appena il 4%. Tutto questo è già flat tax, solo sul lavoro non c’è. La flat tax sarebbe giusta per il lavoro? Quello che secondo Zanetti andrebbe fatto è costruire un ridisegno della fiscalità sul lavoro che tenga conto di un elemento di partenza, cioè fare in mondo che, a parità di salario lordo o vero, una volta pagati contributi e tasse, il reddito disponibile per vivere sia lo stesso. Questa dovrebbe essere la riforma. Questo potrebbe essere un lavoro capace di rimettere un minimo di equità che ora è completamente saltato.
Se osserviamo i redditi più bassi, notiamo che il differenziale di reddito disponibile a parità di lordo che resta in tasca da lavoro dipendente ad autonomo è enorme. La flat tax degli autonomi ha dei problemi perché crea disparità tra autonomi. Ma dipendenti e pensionati possono stare tranquilli, loro non vengono penalizzati. Il problema è che la flat tax per gli autonomi si basa sul fatturato e non sul reddito. Per cui, a parità di reddito, non tutti possono accedervi. Il messaggio è che questo è un sistema che ha creato iniquità ma all’interno delle partite IVA. Sempre partendo da questo presupposto si capisce anche il varo di altre misure come il bonus di 80 euro erogato solo ai dipendenti e non ai pensionati perché, a parità di lordo, i pensionati non pagano i contributi e hanno quindi un netto più alto.
Avviandosi alla conclusione il relatore afferma che bisognerebbe quindi costruire un sistema di tassazione tale per cui fino a un tot del tuo reddito non si debba pagare i contributi previdenziali ripristinando così l’equità in termini di reddito disponibile.